Per la scuola non fiori ma opere di bene

Ho letto le apprezzabili parole di Tiziano Salvaterra, ex assessore all’istruzione e stimato padre della legge sulla scuola trentina. Legge e sistema educativo che noi ex colleghi assessori delle altre regioni allora invidiavamo. La sua e molte altre voci di persone che la scuola la conoscono, soprattutto quelle di chi per la riapertura delle aule scolastiche ha lavorato indefessamente, testimoniano un attaccamento alla priorità dell’educazione, che forse vede troppa parte dell’opinione pubblica distratta.

Il problema è che per rafforzare il ruolo della scuola, anche dall’attacco della pandemia, ci vorrebbero non solo difese di principio, ma conoscenze puntali delle modalità di diffusione del virus e delle difese che possano salvaguardare almeno un parziale mantenimento della presenza a scuola.

Alcune scuole in Italia lavorano già fin da metà settembre alternando didattica a distanza e didattica in aula. Hanno diviso le classi in gruppi più piccoli, stabilito turni per l’accesso e l’uscita, e riescono a operare un distanziamento più deciso e nello stesso tempo sottraggono la metà della utenza scolastica ai mezzi di trasporto. In Lombardia per esempio molti istituti scolastici hanno scelto questa soluzione, compatibile con le norme sull’ autonomia e con le Linee guida ministeriali.

Peccato che nessun dato sia stato raccolto (o diffuso) dal ministero per valutare una eventuale differenza nella reazione alla pandemia delle scuole che hanno da subito alleggerito la pressione sugli edifici e sui trasporti e quelle che invece sono andate da subito in presenza totale.

E peccato che nessuna ricerca sia stata impostata su un campione di scuole per sapere quale percentuale di contagiati asintomatici sia presente in media nelle scuole fra studenti, docenti, personale Ata. La ricerca a campione sulla popolazione italiana curata dall’Istat e operata dalla Croce Rossa questa estate ci ha dato finalmente risposte esaustive sulla percentuale reale di quegli asintomatici sfuggenti a ogni osservazione che però a loro stessa insaputa contagiano gli altri. Si fosse impostata una ricerca simile su un campione rappresentativo di scuole in questo primo mese sapremmo molto di più sui focolai e sui meccanismi di diffusione del contagio in ambito scolastico.

E ancora peccato che non ci siano dati sulla epidemia che distinguano fra le scuole in cui, rispondendo ai criteri disposti dal ministero, si sta senza mascherine in classe, purché seduti distanziati un metro, e quelle in cui invece saggiamente sono state prescritte le mascherine per tutto il tempo di permanenza nell’edificio scolastico.

E inoltre ignoriamo quanto siano distribuiti focolai e quarantene fra i diversi segmenti del percorso scolastico: le abitudini quotidiane dei bambini della scuola primaria e quelle dei liceali differiscono enormemente. Diversamente incidono gli utilizzi del trasporto pubblico, per esempio. Sarebbe stato utile studiare in quale configurazione si danno meccanismi di diffusione dei contagi più significativi.

Insomma: come si fa a reagire razionalmente a un fenomeno che non conosciamo?

Le scuole hanno investito enormi energie per eseguire i dettami relativi alle misure di contenimento della epidemia. Ma non sappiamo di quale efficacia ciascuna di queste misure sia dotata se non sappiamo interrogare empiricamente i risultati. Non perché manchino idee di ricerca, ma perché manca una cabina di regia che produca indagini trasparenti, finalizzate a rispondere a questioni precise e utili.

L’affermazione che la scuola è sicura è detta col cuore da chi ama la scuola. Ma dovrebbe essere il risultato di ricerche epidemiologiche e statistiche, non dell’ottimismo della volontà.

Molte classi comprese le mie hanno già sperimentato la scoperta di avere dei contagiati fra gli alunni. La mia richiesta di tenere comunque sempre la mascherina durante le lezioni è oggi più comprensibile per i miei studenti di quanto non fosse all’inizio. Stare per ore accanto a una persona contagiata, seppure a un metro di distanza, è tutt’altro che privo di rischi. La prova provata della sufficienza delle misure adottate per le scuole verrebbe dal controllo effettivo dei focolai scolastici. Ma questo presupporrebbe la sistematica e veloce attuazione del tampone almeno su tutti i compagni di classe. Cosa che non avviene affatto. Dopo di che, senza tracciamento, se nella catena dei contagiati asintomatici ( come spesso sono i nostri ragazzi) a un certo punto spunta un sintomatico, magari grave, nessuno sa più da dove arrivi il suo caso. Compresi i docenti meno fortunati.

Gli insegnanti, trattati da lavativi quando si ingegnavano a fare la Dad da casa (ancora mi fa male sentir dire che le scuole sono state chiuse tre mesi, posto che ogni giorno facevo lezione con i miei studenti), adesso sono chiamati, in caso di didattica digitale, da una geniale circolare del ministero dell’istruzione a fare lezione online in presenza, a scuola. Una specie di tributo a quella parte dell’opinione pubblica, arrabbiata e spaventata, che confonde la lotta al virus con la lotta alla prevenzione dal virus.

Movimentare, in tempi di epidemia, ottocentomila persone che potrebbero invece lavorare da casa (senza alcuna motivazione in termini di efficienza del servizio e senza garantire peraltro necessariamente dispositivi e collegamenti più efficaci) è una invenzione burocratica caratterizzata da sottile perversione. Per fortuna che, come atto amministrativo, per adesso non riguarda il trentino.